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SCEGLI L’ABITO GIUSTO

14.07.2015.

lanuovaecologiaMolti marchi internazionali dedicano intere collezioni al green style. Ma quali sono le caratteristiche di un abito realmente sostenibile? La nostra guida fra tessuti naturali e tinture no-toxic

di Cristina Montini

Ci fermiamo mai a pensare alla vita degli abiti che indossiamo? Com’è stato confezionato e che impatto avrà sull’ambiente? Vivere green ormai è una scelta che abbraccia sempre più ambiti e anche la moda oggi sceglie di produrre nel rispetto dell’ambiente. Molti marchi internazionali hanno dedicato intere collezioni al green style come Vivienne Westwood con la sua “Climate revolution” o Stella McCartney. Ma anche in Italia l’attenzione è alta: «Molte aziende di moda si stanno impegnando per garantire tessuti controllati o riciclati, e la nostra federazione pone particolare attenzione all’etichettatura dei prodotti con certificazione green – afferma Massimo Torti, segretario generale della Federazione moda italiana – vogliamo una moda sostenibile».

Secondo il rapporto GreenItaly di Unioncamere e Fondazione Symbola quando si parla di sostenibilità nel settore della moda bisogna riferirsi ad almeno tre ambiti: alle materie prime che devono essere certificate, alla creazione e alla produzione dei filati e dei tessuti, alla tintura e fissaggio del colore attività che da sole, all’interno dell’intero ciclo produttivo, possono arrivare a consumare l’85% di tutta l’acqua necessaria, il 75% dell’energia e il 65% dei prodotti chimici.

Tuttavia, definire un capo d’abbigliamento “ecosostenibile” non è semplice e il consumatore che voglia acquistare ecofriendly non ha di certo vita facile entrando nei più comuni negozi di abbigliamento. Come sostiene Guido Bottini, responsabile area ambiente di Sistema moda italia, una delle più grandi organizzazioni mondiali di rappresentanza del settore tessile «il termine green è generico e non conferisce nessuna caratteristica realmente qualificante al prodotto». Invece, quello che viene certificato come proveniente da agricoltura biologica può già fornire delle informazioni più definite. Ci si potrebbe poi imbattere in collezioni cruelty free o magari acquistare una borsa vegana. In questo caso l’attenzione si sposta sul rispetto degli animali, perché si tratta di oggetti realizzati senza l’uso di pelle o altri tessuti di origine animale, come la pelliccia spesso usata come guarnizione dei cappucci delle giacche. «In Italia sempre più catene di negozi hanno adottato una politica fur free – racconta Ariella Martino, una delle fondatrici di Stiletico – sempre più marchi diffusi hanno delle linee di capi green, e molti di loro si sono già impegnati a non utilizzare ad esempio pellicce vere per colli e cappucci. Dopo la prima, Zara, hanno seguito l’esempio Upim, Coin, Oviesse, Guess, Stefanel, Carrefour, Sixty, Diesel, Bennet, Auchan, Escada».

Nell’acquisto di prodotti di abbigliamento, le parole “etico”, “naturale” ed “ecologico” in realtà indicano dei concetti astratti difficilmente riconducibili a standard precisi che ancora non sono riconosciuti universalmente. «Ci sono numerosi tentativi di certificazione, sia nazionali che internazionali, che aiutano a capire che cosa si sta acquistando – prosegue Torti – Ma nella maggior parte dei casi garantiscono solo alcune fasi del più complesso ciclo di vita di un prodotto tessile». Dalla produzione dei materiali all’esposizione del prodotto nei negozi, la strada è lunga e a volte quello che nasce come ecosostenibile può non esserlo più alla fine della lavorazione.

In Italia, un lodevole tentativo di dare ordine a questa materia così complessa è stato dato dal “Manifesto della sostenibilità per la moda italiana”, promosso dalla Camera nazionale della moda e pubblicato a giugno 2012. Si tratta di un decalogo, dedicato alle aziende, che traccia le linee guida per una gestione responsabile di tutta la catena di produzione del comparto moda.

Un primo passo per un acquisto consapevole è prestare attenzione ai materiali con cui è fatto un prodotto. Nella scelta si tende a prediligere i tessuti naturali a quelli sintetici, che se prodotti da polimeri derivati dal petrolio attraverso processi chimici hanno un forte impatto ambientale. Ma la questione non è così scontata. «Infatti – avverte Guido Bottini – la sostenibilità di un prodotto e il suo conseguente acquisto non dipendono dal fatto che sia naturale o sintetico». Anche le fibre comunemente considerate naturali possono presentare delle insidie. La lana, che è una fibra naturale ricavata da diverse tipologie di animali (ovini, conigli o camelidi) attraverso la tosatura, può essere sottoposta a trattamenti chimici nella sua lavorazione, ad esempio per sbiancare o ammorbidire le fibre, che potrebbero avere conseguenze sul piano dell’impatto ambientale.

«È pur vero – continua Bottini – che una fibra, anche se subisce un trattamento chimico, non è detto che non sia ecologica; applicando un Lca (Life cycle analysis) si potrebbe arrivare a degli ottimi risultati dal punto di vista ecologico».

La seta è una fibra naturale, ma è messa sotto accusa dal fronte animalista perché l’estrazione prevede d’immergere le larve in acqua bollente provocandone l’uccisione. Non tutti sanno, però, che esiste un particolare tipo di seta, la buretta, che viene ottenuta aspettando che la farfalla fuoriesca naturalmente dal bozzolo al termine dello stadio larvale per poi lavorarne solo i cascami.

Accanto a queste fibre di origine animale ci sono numerosi materiali di origine vegetale. Il cotone è senza dubbio quello più diffuso, ma non sempre è sinonimo di ecosostenibilità. Il cotone derivante da coltivazioni convenzionali necessita di grandi apporti di acqua, grandi superfici di terreno e anche numerosi interventi chimici come insetticidi ed erbicidi. La lavorazione per ottenere la fibra tessile prevede l’utilizzo di agenti chimici per schiarirlo, ammorbidirlo o colorarlo e trattamenti anti muffa.

«Il cotone naturale non è bianco – ricorda la dottoressa Pucci Romano, specialista in Dermatologia e presidente dell’Associazione internazionale di ecodermatologia Skineco – Però l’idea di pulito viene associata al bianco. Per sbiancare il cotone si usano perclorati, formaldeide, una serie di sostanze citotossiche in grado di rimanere sui tessuti anche “fino a 10 lavaggi”». Ci si può orientare, quindi, verso il cosiddetto cotone organico, cioè quello proveniente da agricoltura biologica. Di grande diffusione è il lino, altra fibra naturale che conta su una delle lavorazioni più rispettose dell’ambiente, assieme alla canapa. Meno conosciuto ma molto simile al lino è il ramie, una pianta della famiglia delle ortiche da cui si ricava un tessuto.

Esistono ancora altre fibre di origine vegetale, non più conosciute oggi come un tempo, quali il bambù, che ha proprietà antibatteriche, antistatiche, protegge dai raggi Uv e ha un maggior potere assorbente rispetto al cotone, ma anche la rafia, la ginestra e il cocco.

Qualunque sia la fibra naturale utilizzata, se viene poi trattata con sostanze chimiche inquinanti, perde ovviamente le caratteristiche di sostenibilità. «Tra le varie fasi della lavorazione, sicuramente la colorazione è quella che ha maggiore esposizione chimica – afferma la dermatologa – ma anche il confezionamento finale ha un grande peso a causa dell’appretto che viene utilizzato, per questo sempre meglio lavare un prodotto nuovo prima di indossarlo».

Oggi si posso usare con ottimi risultati i coloranti di nuova generazione, che sono chimici ma completamente biodegradabili, per ridurre del tutto il loro impatto sull’ambiente. È molto importante fare attenzione ai componenti chimici presenti nei tessuti, poiché alcune sostanze, come ftalati o composti perfluoroclorurati, con il contatto prolungato possono portare all’insorgere di patologie.

I problemi più comuni sono le dermatiti da contatto, le allergie, gli eritemi. Il nostro organismo può entrare in contatto con i composti chimici per inalazione di vapori causati dalla reazione del sudore con il tessuto trattato oppure, come nel caso dei nonilfenoli etossilati, la sostanza viene dispersa nell’ambiente con il lavaggio in lavatrice dei capi. Ma Massimo Torti rassicura che «i prodotti a marchio Ce rispondono ai requisiti essenziali indicati nei diversi provvedimenti Ue in materia di sicurezza, sanità pubblica, tutela del consumatore».

Il problema più concreto, dunque, deriva dal fatto che alcuni paesi dell’Estremo oriente non prevedono lo stesso tipo di controllo. Di conseguenza, è bene fare attenzione ai prodotti di importazione, guardare sempre l’etichetta e diffidare di un rapporto qualità prezzo troppo vantaggioso.

Fonte: La Nuova Ecologia

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